Maternità surrogata: tra scandali, ipocrisie e buonismo a prescindere

di Simonetta Spinelli

Il primo scandalo è il fatto in sé, cioè che di maternità surrogata si parli soprattutto quando diventa motivo di una rissa tra maschi, per giunta gay, ricchi e famosi (v. Milena Carone), così diventa anche l’occasione per ribadire lo sport in voga del tacciare di omofobia, sia pure rimossa, chi non la pensa come altri. Non si capisce infatti perché, in quanto gay, non si possano avere opinioni diverse sull’opportunità o meno di ricorrere ad una pratica che è, a dir poco, controversa. Il che  fa passare sotto silenzio un altro scandalo: la definizione di figli sintetici affibbiata a bambini appena nati che se la ritroveranno  sulle spalle per tutta la vita. Perché le parole sono pietre e le pietre difficili da eliminare, soprattutto quando entrano nel linguaggio comune. Le donne ne sanno qualcosa.

E’ già successo. Per fare un esempio, in tempi non proprio preistorici, i bambini che venivano abbandonati erano segnalati all’anagrafe come nati da M. Ignota, con ciò significando nel linguaggio burocratico semplicemente che la M(adre) era sconosciuta. Che fosse sconosciuto il padre, unico titolare a rendere legittima, cioè socialmente adeguata, la nascita, si riteneva inessenziale perché ovvio. Cosa ne abbia fatto dell’annotazione burocratica il popolino romano – traslandola su ogni figlio di madre nubile – è cosa più che nota.

Più recentemente lo stesso è accaduto con la definizione “figli della provetta”, poi modificata nella vulgata in “figli in provetta”, veicolata da giornalisti in cerca di una prosa ad effetto. Definizione che, nell’epoca dell’informazione globale e imperitura, sarà sempre rintracciabile e quindi passibile di creare nuove discriminazioni.

L’ossessione della scienza, che spesso oscilla tra passione di ricerca e delirio di onnipotenza,  ha origini lontane, nell’insofferenza degli uomini a dipendere dalle donne in materia di procreazione. Già i Greci (Aristotele insegna) manifestavano la loro irritazione nel dover dipendere dalle donne per programmare, attraverso i figli, il loro futuro, e teorizzavano che l’utero fosse materiale passivo e inerte in cui solo il seme maschile poteva infondere il soffio della vita. L’ossessione  di poter procreare eliminando le donne pervade i miti delle più distanti culture e arriva ai giorni nostri con l’evoluzione delle PMA, in attesa che la procreazione possa avvenire al di fuori del corpo della madre, appunto in provetta. Se questo avvenisse, i gay sarebbero considerati non più gentaglia immorale e scostumata ma gli eroi di una rivoluzione maschile finalmente compiuta. Con buona pace di tutte le donne (lesbiche comprese) dotate di un’irrimediabile potenza generatrice per cui, una volta trovato uno sperma fin troppo accessibile, devono poi costruire materialmente la figliolanza con nove mesi di gestazione, con tutto ciò che la faccenda comporta.

Il problema è proprio questo: ciò che la faccenda comporta. Non vedo ostacoli etici nel donare un ovulo o nel donare sperma, anche se mi irrita la semplificazione con cui si equiparano le due donazioni, quando per donare sperma basta una masturbazione e per donare ovuli bisogna sottoporsi a lunghe e non semplici terapie ormonali. Il che fa un’enorme differenza. Ma per amore, per amicizia, per solidarietà, comprendo che si sia disposte a farlo. Così come comprendo la donazione di un organo binario a favore di una persona cara, anche a costo di mettere in pericolo la propria vita.  Ma trovo sensato che la legge preveda l’esistenza di un legame familiare o affettivo per autorizzare il trapianto tra vivi, proprio per evitare uno sfruttamento a danno dei più deboli o economicamente svantaggiati. Nello stesso tempo, quando sento di genitori che mettono al mondo un figlio, sperando nella compatibilità genetica con un altro malato, quasi per produrre pezzi di ricambio, mi viene il voltastomaco. Perché un figlio può essere un desiderio, del tutto comprensibile, una speranza, una responsabilità, non può essere un oggetto di consumo o di scambio.

Non può essere un oggetto. Al di fuori di situazioni di disperazione, impotenza, miseria o coercizione, non è pensabile tenere dentro di sé per mesi un essere vivente che cresce, si nutre di te, si modifica e ti modifica, fisicamente e psicologicamente, e poi far finta di niente e farne un oggetto da dare via, sia pure l’oggetto di un dono. Il famigerato caso della madre del gay, che ha fatto da madre surrogata per permettergli di avere un figlio suo, non mi sembra un gesto d’amore, ma la dimostrazione di un rapporto madre-figlio morbosamente malato ai limiti dell’incesto.  Anche il materno ha un suo lato oscuro. E proprio per questo vorrei poter indagare nei casi rarissimi, amplificati dalla stampa, di uteri prestati da madri a figlie o da sorella a sorella, anche quali risvolti tale pratica abbia sulla crescita emotiva di figlie e figli,  e in concreto se, e quali, conflitti si aprano tra le due donne in questione e come si risolvano. Perché è facile ignorare ingerenze di gelosie e possessività se la madre biologica è una disgraziata (nel senso di gravata da disgrazie) che abita dall’altra parte del mondo, priva di forza contrattuale sia economica che emotiva, lo è di meno se si trova a stretto contatto, spaziale ed emotivo, proprio in famiglia.

Mi sembra un’ipocrisia buonista quando sento affermare: “per amore lo farei”. E’ un’ipotesi che non è in questione, quindi la si può giocare come paravento, per dimostrare comprensione, tolleranza, spirito aperto. Ma comprensione di che e per chi? Stiamo perdendo il senso stesso di ciò che è diritto. Avere un figlio a tutti i costi è un diritto? E farlo utilizzando una donna come se fosse a sua volta un oggetto di consumo, un contenitore inerte sul quale la gravidanza non ha conseguenze, né psicologiche, né emotive è un diritto?

Non mi pare che il fenomeno delle gravidanze surrogate (v. Pina Nuzzo) sia generalizzato tra le donne occidentali, bianche, dotate di un reddito sia pure minimo. Prospera nei paesi in cui la povertà è così disperante che il nuovo colonialismo può esercitarsi anche sui corpi, acquistando organi e uteri da rivendere sul mercato globale. In paesi in cui i diritti delle donne non hanno statuto e le donne stesse sono  considerate meno che merce, proprietà a basso reddito. O in paesi che vantano un alto grado di democrazia ma in cui la disparità di condizioni economiche è tale, e la pressione a raggiungere un livello economico maggiore – e una maggiore capacità consumistica equiparata al prestigio sociale -così generalizzata e pesante da rendere tutto ciò che è comprabile adatto di per sé ad essere venduto, che siano corpi o figli è irrilevante. Gli stessi paesi che organizzano marce a favore dei diritti delle donne, dei minori, delle minoranze, contro il razzismo, e in cui le maternità surrogate si offrono su Internet tramite cataloghi con le foto delle madri biologiche, quasi esclusivamente nere o del sud-est asiatico.

Il vero scandalo è il dibattito tra donne per valutare i pro e i contro. Come se esistesse un pro quando un presunto diritto passa sopra il corpo di un’altra donna riducendola ad animale da allevamento. Come se la reificazione di una donna non ricadesse su tutte le donne e il deprezzamento simbolico che ne deriva  non fosse un’arma più che sperimentata nei secoli .

Nella confusione generalizzata l’ipocrisia dello Stato non facilita chi ha il desiderio di un figlio. Basterebbe mettere in comunicazione reale chi vuole adottare con la moltitudine di bambini abbandonati  e facilitare le procedure di adozione, richiedendo nuclei stabili, che garantiscano affetto e protezione, che siano etero o omosessuali, perché la disponibilità ad amare non dipende dagli orientamenti sessuali,  e l‘omicidio continuo di mogli e figli registrata dalle cronache dimostra che l’eterosessualità non è condizione sufficiente a garantire paternità responsabili. Basterebbe garantire alle singole – non vedo tutta questa folla di maschi singoli disposti a prendersi la responsabilità di un figlio senza una donna che glielo cresca – la possibilità di adottare, non coprendosi con l’alibi della necessità per una crescita equilibrata di avere una madre e un padre, come se le migliaia di figli cresciuti dalle sole madri avessero prodotto un’orda di delinquenti e i bambini cresciuti in orfanotrofio o nelle case-famiglia – e buttati fuori appena raggiunta la maggiore età – fossero esenti da squilibri socio-affettivi.

E come se la famiglia cosiddetta tradizionale fosse per statuto il luogo santificato esente da contraddizioni e privo di figli disadattati.

Basterebbe. Forse. Perché ci sarebbe sempre chi difende il suo “diritto” a “tramandare il proprio sangue”, che non a caso Milena Carone (nel suo profilo facebook) definisce “mafioso e tribale”, pretesa illusoria per la quale il figlio deve esistere solo in quanto proiezione nel futuro del padre, simbolo di una catena di potere patriarcale che si perpetua nel tempo. Con un marchio fisico riconoscibile perché segnato nel sangue. Un marchio di proprietà che non vedo come possa coesistere con il desiderio di paternità responsabile.

Il ricorso alla maternità surrogata mi sembra l’estensione dello stesso principio inserita nella logica aberrante del mercato globale. La figlia o il figlio diventano proprietà che legalmente si acquista con una transazione economica disponibile per chi ha reddito sufficiente, utilizzando gli stessi metodi di sfruttamento sperimentati da sempre. E il padre, abbiente e noto, si prende la sua rivincita sulla madre, finalmente ridotta a inessenziale per legge. Merce anche lei, con buona pace delle fatiche femministe, alle quali si chiede una riflessione pacata e una sospensione del giudizio.

Come dice sempre la mia amica Edda Billi: il patriarcato sarà anche morto, ma il suo fratello gemello gode di ottima salute.

Forse il movimento LGTBIQ (e chi più ne ha ne metta), oltre a focalizzarsi solo sul matrimonio, di qualche altro problema sarebbe il caso che discutesse.

Simonetta Spinelli

 

Sul dibattito v. Milena Carone, Che amara gabbana,  e  Simona Sforza, Parliamone senza omissioni o paure.  Per un analisi più generale v. Pina Nuzzo,   Figure accudenti

 

 

Ho fatto a pezzi la regina Cristina

di Simonetta Spinelli

Raccattare pezzi di immagini e rimontarli. In altro ordine: paradossale, smembrato, eccessivo. Ecco il lavoro che mi occupa quando vado al cinema.

Mia madre ha scoperto che fra me e lei c’era qualche incomprensione di fondo quando si è resa conto che mi piacevano i film di vampiri e rischiavo di addormentarmi durante la proiezione di Via col vento. Un qualche accordo sembrava esserci su Greta Garbo, ma fondava su un equivoco: lei rievocava la donna “fatale” (testuale), io la regina Cristina. Quando l’equivoco si chiariva non sapevamo più di cosa stessimo parlando. «Antonio!» – scimmiottava lei con l’assurda pronuncia di Garbo e un barlume di speranza nello sguardo – «E chi è Antonio?» – chiedevo io spegnendole irrimediabilmente il barlume. Perché, per me, La Regina Cristina era, ed è, un film in tre quadri: una Garbo ironica che puntualizza: «Non sono una zitella, sono uno scapolo»; una Garbo seduttiva e tenera che abbraccia la sua dama di corte: una Garbo strafottente che salta a cavallo il confine della Svezia e si lascia dietro, con una risata, tutto il mondo. L’Antonio, di cui mia madre ricorda la recitazione caricaturale da film muto, è stato abilmente tagliato in moviola.

E analogamente tagliati sono i film che ricordo: immagini sparse, isolate, frazioni di testo riscritte. Come se la suggestione non nascesse dallo sguardo, ma da una ricostruzione infratestuale operata utilizzando scarti. Quello che resta fuori e non è detto, che la memoria ricostruisce con materiali non previsti, presi altrove, fuori scena. Che ricontestualizzano un gesto, prolungano un’emozione e ne mutano il senso. Al punto che, nel ricordo, viene fissata quella mutazione soltanto, e si cancella il resto.

La rappresentazione del desiderio in uno scenario eterosessuale impedisce ad una donna lesbica di identificarsi sia con il personaggio femminile che con quello maschile. In ogni caso c’è una donna in meno, un uomo di troppo e uno scenario incongruo. La visione dei film in circolazione costringe le donne lesbiche ad una doppia fatica: resistere alla frustrazione di viversi come l’irrappresentabile e scavare in ogni possibile anfratto del rappresentato alla ricerca di tracce che, per giunta, devono essere costruite-decostruite-ricostruite. Per godere di tre quadri de La regina Cristina devo eliminare tre quarti del film, riportare in primo piano alcune suggestioni, e ricostruire, collegandole a modo mio, una storia per me. LEGGI TUTTO

pubblicato  in  DWF, Lo strabismo di Venere, 1988,1-2, pp.31-36

A volte ritorna: Monique Wittig e l’Italia

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Simonetta Spinelli, Intervento al Seminario: Attraversare i confini: pratiche culturali e politiche del femminismo italiano (anni ’70 e ’80), 11/11/2010, Roma, Uniroma3,  poi in «Genesis», X/2, 2011, pp.125-139

Ben prima che lo scandalo collettivo del Femminismo rivoluzioni e destrutturi la cultura europea e nordamericana, Monique Wittig ha già contribuito a una rottura scandalosa con i canoni letterari e politici della seconda metà degli anni Sessanta. E’ già una figura disturbante, eccessiva intransigente, pur tra donne che la cultura patriarcale identifica con eccesso, disturbo, intransigenza. E’ scomoda anche per i nascenti gruppi femministi con i quali collabora attivamente. Non a caso è presente in quello che verrà considerato l’atto di nascita del Movimento di Liberazione delle Donne in Francia: la deposizione, a Parigi nel 1970, sotto l’Arco di Trionfo, di una corona in memoria della moglie del Milite Ignoto. Ma la sua è una collaborazione che nasce conflittuale, perché Wittig ha già pubblicato le sue prime opere: L’Opoponax nel 1964 e, soprattutto, Les Guérrillères, in cui si manifesta la radicalità di un pensiero che non accetta mediazioni.

La pubblicazione di  Le Corps lesbien nel 1973 e di  Brouillon pour un Dictionnaire des Amantes nel 1975, evidenzia una teoria politica e letteraria ancor meno mediata ma, paradossalmente, l’interpretazione dei suoi scritti come opere letterarie di straordinaria invenzione linguistica e poetica mette in ombra la lettura politica. Tra Wittig e le femministe francesi è in atto una tregua  armata che si interrompe negli anni Ottanta, con la parallela spaccatura del nucleo storico del gruppo Féministes Révolutionnaires, tra le femministe materialiste, tra le quali Christine Delphy e Wittig, e Psych&Po, la cui figura di rilevo era Antoinette Fouque. Si scontrano infatti in Francia due diverse concezioni del femminismo: «Ci sono nel MLF due modalità per riflettere collettivamente sull’identità delle donne, due modi di concepire la differenza dei sessi […]. Per le une la differenza dei sessi è sostanzialmente un prodotto della società, il risultato di un condizionamento» e quindi va combattuta come ogni differenza che crea diseguaglianze, «Per le altre il femminile esiste in sé. [Ma] è stato negato, censurato, svalorizzato», è l’indicibile che deve essere indagato, portato alla luce a partire dall’esplorazione e dalla valorizzazione del corpo femminile attraverso la scrittura.

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Monique Wittig: queer or not queer

di Simonetta Spinelli

Monique Wittig è sempre stata una figura controversa nel panorama culturale rivoluzionato in Europa e negli USA dal movimento delle donne. Osannata dalle lesbiche radicali, combattuta come un pericolo da eliminare dalle femministe etero (involontario omaggio alla forza delle sue intuizioni), viene di volta in volta oscurata o tirata fuori dalla dimenticanza, come un eterno boomerang che torna inevitabilmente a ricreare disturbo. Quando non si sa a che santa votarsi, perchè il panorama delle sante è inflazionato, ci si ricollega a Wittig. Percorso a ritroso affrontato da più di una generazione di lesbiche, oggi ripreso sia dalla teoria queer, sia da coloro che a tale teoria si oppongono.

Tra le opere di Wittig, la coperta tirata da tutte le parti è in gran parte rappresentata dalla raccolta dei saggi, The Straight Mind And Other Essays, edita negli USA nel 1991, che comprende riflessioni scritte tra il 1978 e il 1990, in parte pubblicate su Questions Féministes e, dopo la rottura avvenuta nel 1980 tra femministe etero e lesbiche radicali francesi, in Feminist Issues, rivista statunitense. Le opere letterarie, che pure rappresentano la maggiore produzione di Wittig e che esprimono, ben prima dei saggi, il suo pensiero politico, sembrano in questa disputa ereditaria passare in secondo piano, così come gli scritti, inseriti nella raccolta, che tracciano le linee di una ricerca che è simultaneamente politica e letteraria, anzi politica perchè letteraria.

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Di incivili diritti civili e Di alcune proposte

Un pregiudizio di principio sul negoziato – come già detto – non ha ragione di essere. La mediazione è spesso l’unico modo per rimuovere obiettive situazioni di svantaggio. Affrontare un negoziato prevede, però, la verifica di alcune premesse: che ci siano due o più parti, cioè due centri di interesse, non solo in contrasto, ma motivate ad appianarlo con una contrattazione e, quindi, un reciproco riconoscimento, pur nell’ottica di rapporti di forza diversificati; che la mediazione non rappresenti la riduzione all’infimo di una delle due parti in questione; che la contrattazione non aggravi le condizioni dello svantaggio.

Nel momento in cui alcune donne lesbiche propongono una mobilitazione per il riconoscimento a lesbiche e omosessuali dei cosiddetti diritti civili, la richiesta non si pone come neutra, ma produce il suo senso. Implicito nella richiesta stessa. E’ come se dicessero: riconosciamo questo specifico ordinamento giuridico – e il discorso che lo sottende – come unico titolare all’elaborazione dei principi di libertà valevoli per tutti; i diritti cosiddetti civili corrispondono alla nostra concezione di convivenza sociale, al punto che deleghiamo alla legge di stabilire canoni relazionali entro i quali deve esprimersi la nostra sessualità; consideriamo che tutto ciò rappresenti un vantaggio, perchè ci stana dalle nostre postazioni minoritarie e mimetizzate e ci costringe ad uscire allo scoperto.

Forse non è casuale che un tale ragionamento, apparentemente lineare e semplificativo, non sia stato partorito prima. O che analoghe precedenti proposte siano state respinte.

Il problema non sta nel negoziato. Sta nei termini in cui viene ipotizzato.

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