Je ne regrette rien

JE NE REGRETTE RIEN [1]

Incredibile velocità di circolazione di parole che ci siamo dette. La nostra prima reale messa in discussione di un principio di autorità, che si traduceva in autoritarismo, è stata nel denunciare un’oppressione comune, dirci parole che erano autorevoli. E fondante autorevolezza era la dimensione di svelamento che quelle parole sottendevano. Ripeterle era rendere esplicito che al di là del codice costituito, fondato sulla negazione del corpo della donna, c’era altro che solo partendo da quel corpo poteva essere detto.

Parole autorevoli sono state quelle che ci dicevano presenti in quanto sessuate. Che andavano contro l’occultamento, la cancellazione, che ridefinivano il desiderio come voglia di dirsi da sé a partire dal dato materiale di un corpo di donna sessuato.

L’immaginario di quel desiderio era trovare una strategia che lo realizzasse nel suo interesse. In cui il desiderio trovasse soddisfazione senza dover essere stravolto, e quindi nel suo dato essenziale di desiderio sessuato. In questo senso si sono rivestite di autorevolezza quelle parole che svelavano la possibilità di costruire la forma sociale del desiderio, e quelle pratiche che permettevano alle donne di porsi una di fronte all’altra con titolarità di presenza – quindi di indagine – e di rimandarsi immagini che non si negavano reciprocamente. La miseria privata, occultata nevroticamente, assumeva un altro significato quando lo svelamento la palesava collettiva. Il malessere, impotente perché singolo, di una condizione rimandato dal racconto di infiniti malesseri, acquistava valore di assunzione di coscienza.

Si scopriva che l’impossibilità di rapporto tra soggetti muti poteva diventare possibilità, se il rapporto tra donne si fondava in termini di riconoscimento, proprio sulla base della differenza sessuale, e di luogo in cui agire il desiderio sessuato.

La pratica di rapporti tra donne non sarebbe stata così rilevante se i tentativi verso cui si orientava la ricerca non si fossero organizzati nel Movimento, cioè in una dimensione collettiva, capace di rimandare ad ogni donna, nel rapporto, un’immagine dell’autorevolezza che il fatto di essere in due, o in gruppo, dà rispetto al sociale in senso politico. L’autorevolezza del Movimento consisteva nel fatto che si svelava la possibilità di ampliare – e quindi di rimandare costantemente – l’immagine della presenza sessuata delle donne e di renderla politicamente significativa, capace cioè di incidere. Parallelamente Movimento era parola autorevole, perché permetteva di comprendere un insieme di pratiche, di ricollegarle in una dimensione sociale, senza costringerle in un ordine gerarchico o rigido. Al contrario di organizzazione, che sembrava portare in sé, automaticamente, germi di autoritarismo. Movimento era quindi possibilità di una struttura flessibile, non codificata. Ma funzionale. Anzi funzionale proprio perché non codificata.

L’orrore di ciò che era codificato, chiuso, rigido, è stato il punto di partenza di tutte le nostre analisi. Abbiamo riconosciuto autorevoli le nostre parole quando aprivano problematiche, sollevavano dubbi, aprivano spazi di confronto, svelavano possibilità in tutto ciò che era considerato, dalla cultura ufficiale, scarto. In quest’ottica abbiamo privilegiato parole minoritarie con cui ci svelavamo un’intimità. In questo svelamento riconoscendole autorevoli. Ma l’autorevolezza, in quanto direttamente collegata all’esigenza di capire, di aprire spazi di coscienza, di eliminare occultamenti, non può essere dato che resiste al di fuori del tempo. O inevitabilmente si trasforma in autoritarismo. La nostra incapacità, in questo momento storico, è rinunciare a parole che hanno perso autorevolezza, perché superate dalla nostra stessa capacità di coscienza, o perché si sono trasformate in un codice alternativo, non per questo meno chiuso.

Un codice estremamente rigido lo abbiamo creato, dando per scontato che alcune parole autorevoli mai sarebbero state, e tanto meno le problematiche ad esse collegate. La parola organizzazione ha subito questo fato di mai poter essere autorevole. Le forme di organizzazione – che si sono praticate – dovevano essere sotterranee, taciute, possibilmente negate. Negata, o sospettata di voler far ricadere il femminismo in un’ottica emancipatoria, era anche qualunque problematica che riportasse alla quotidianità nel sociale.

Sessualità da una parte, denaro dall’altra: irriducibili. In mezzo, frazionate da questa irriducibilità, le nostre vite. Tra due linguaggi, uno estraneo, l’altro incerto, e comunque incapace di superare questa spaccatura con un’adeguata strategia del desiderio, abbiamo sentito le nostre parole perdere autorevolezza, divenire in qualche modo complici di un nuovo occultamento. Confuse dalla conflittualità che crea, nei rapporti tra donne e nel rapporto con sé di ognuna di noi, dire la propria presenza sessuata e non avere spazi nel sociale per agirla, avvilite dalla logica del mercato, che costantemente interrompe il nostro delirio di onnipotenza, ossessionato dal divieto di parola sul mondo, e soprattutto su ognuna di noi nel mondo, abbiamo usato come difesa le nostre parole di intelligenza, le abbiamo rese ideologiche, quindi vuote. “Donne è bello” era autorevole perché svelava una presenza connotata sessualmente, quindi una possibilità mai espressa. Lo stesso slogan oggi esprime “donne è bello per forza”, che non è autorevole, perché non apre conoscenza, sottolinea una limitazione. La ripetizione rende la parola mutilata.

Mute, perché l’analisi si è interrotta sull’insufficienza, abbiamo lasciato alle singole il compito di arrangiarsi come potevano nelle situazioni che riguardavano lavoro, professionalità, rappresentatività personale. Lo sforzo di tenere divise le due sfere – ricerca collettiva di identità e identità agibile nelle strategie per la sopravvivenza – ha contribuito alla caduta di passione nei confronti dell’attività politica. Ha ricreato arroccamenti difensivi, acuito stanchezze, provocato frustrazioni. Nei gruppi – e di conseguenza nello spazio sociale rappresentato dal Movimento – questo si è tradotto in un irrigidimento di posizioni, in ostilità nei confronti di tentativi di approfondimento, che intaccavano equilibri non più reali, oppure in dinamiche consolatorie e tendenze all’omologazione ai minimi livelli. L’ideologia dell’organizzazione, o quella dello spontaneismo emozionale, hanno provocato un’involuzione in senso autoritaristico all’interno del Movimento, rischiando di ridurlo a luogo senza spazio, luogo di rimozione, quindi incapace di espandersi. In questa situazione, l’esigenza prioritaria – che sembra rimettere tutto in discussione – è cercare una nuova autorevolezza.

Tra le parole che circolano con più insistenza, e trovano consenso, c’è affidamento. Termine che ha avuto una lenta gestazione. Nei dibattiti sul documento di Milano, la perplessità malcelata con la quale si affrontavano i problemi  relativi a “voglia di vincere”, “pratica della disparità”, “darsi valore”, “sessualizzare i commerci sociali”, sembra oggi sanata da questa parola che li ingloba, e in un certo modo li rielabora: “affidamento”. E non è casuale che su questa, e non su altre, si appunti la voglia di scommessa delle donne.

Nell’ottica del “mi piace-non mi piace”, mi chiedo se il criterio e la pratica dell’affidamento reggano, nel senso di poter diventare autorevoli, e quale autorevolezza mettano in gioco.

Un valore indubbio riconosco all’affidamento: aver nominato lo scacco e cercato una soluzione con un’immagine non di miseria, e aver esplicitato che la ricerca di un’autorevolezza, cioè  di una strategia che vada nell’interesse del desiderio, può essere oggi solo nel senso di dare cittadinanza alla presenza sessuata delle donne nel sociale. Che cioè non è più possibile un’analisi parziale, tutta interna alla socialità tra donne, che lasci fuori enormi spazi di vita, in cui lo sforzo di costruzione dell’identità mai abbia effetti di ritorno. Nella formulazione teorica dell’affidamento, d’altra parte, leggo un’insanabile ambiguità. Pur essendo strategia che ha origine da una problematica storicamente determinata, e che all’interno del Movimento si è sviluppata, l’affidamento fonda sul fatto, non di disconoscere, ma sicuramente di non nominare tutto ciò che di autorevole lo ha preceduto. Sembra un fungo spuntato dal niente, che rende irrilevante – o dato per risolto – il problema della costruzione dell’identità della donna, se non per quel punto isolato che esprime il suo voler essere corpo presente nella professionalità e nel lavoro.

Ancora una volta il soggetto resta scollegato dal soggetto sociale. Se non riconosco autorevole quella parola che esprime una problematica tutta interna al soggetto, mai valutandolo come soggetto sociale, la stessa carenza mi pare accompagni un’indagine tutta centrata sul soggetto sociale e ad esso limitata. Quando in realtà, oggi, l’unica ipotesi che posso aprire è di riconoscere autorevolezza a quella parola che afferma insieme soggetto e soggetto sociale. La lettura parziale nulla svela. Ho bisogno di una lettura complessiva che possa nella pratica diventare strategia parziale.

Problema a sé, che naviga nel vuoto, l’affidamento è un gioco di specchi. Se io mi affido all’altra sulla base esclusiva di un “più” di conoscenza o esperienza professionale che la caratterizza, e ignoro ogni altra considerazione, il rapporto resta chiuso in un’ottica duale che rimanda, come in un gioco di specchi, all’infinito la stessa cosa. L’ambito professionale, territorio delimitato spazialmente e per specie, diventa la riserva di caccia in cui si aggirano a coppie l’apprendista e la stregona.

La stessa dinamica può riproporsi, in altri rapporti di affidamento, in altre situazioni, ma di per sé non collega, esprime isolati, per quanto ripetuti, movimenti di inserimento nel mercato, misura quotazioni e livelli di competitività. Livelli che crescono, forse, nell’ottica dell’emancipazione professionale e rendono visibile, nello specifico settore, una presenza numerica più significativa del genere, ma una presenza ancora una volta muta, perché non connotata, se non in superficie, dalla differenza sessuale.

Si crea una mutazione apparente, perché titolari della proposta e dell’accettazione sono due donne, ma in realtà nulla si sposta, Perché fondante il rapporto è una funzionalità rigida. Se non è possibile delimitare un “più” e un “meno”, non è pensabile il rapporto. E in ogni situazione si assolutizzano “più” o “meno” valutandoli in modo unidimensionale. Quanto più parziale è il luogo del rapporto, tanto più è gerarchizzata la sua modalità. Non lascia spazio. E rischia di moltiplicare rapporti, sì, ma di sudditanza. Che questa sia dichiarata non migliora la situazione. Mi chiedo allora, per quanto l’affidamento tolga di torno una grossa ambiguità del Movimento, rendendo spudorata, e non più occulta, la delega, come possa essere autorevole una pratica che per esistere ha bisogno necessariamente della miseria altrui. E che, per altro, supera  solo apparentemente i limiti di un’emancipazione solitaria, dal momento che si struttura su connotati di genere, ma in realtà ricrea un emancipazionismo di clan, più che solitario, perché la complicità tra donne, apparendo qui solo funzionale e non intima, lascia fuori il sessuato e rende il genere occasionale. La dinamica del mercato non viene interrotta, semplicemente si rende mondana una pratica di separatismo.

Ci siamo autoschiacciate – ma è stata una tappa obbligatoria della nostra storia – in situazioni paradossali in cui chi parlava, chi era propositiva, attiva, desiderosa di tentare una parola, veniva tacciata di produrre il silenzio delle altre, di volontarismo sospetto, di ambizioni personali, di iperattivismo che non rispettava i tempi delle donne. Che non si sapeva mai quali dovessero essere e chi dovesse scandirli. Nessuna vuole restare legata al mito del buon tempo antico. Avevamo bisogno di una mozione di rigore. A suo modo il documento di Milano l’ha tentata. Ma una pratica che considera valida solo la parola la quale ha dato prova di sé nel sociale, e che in funzione di quella momentaneamente azzera, anche se scientemente, tutte le altre, più che rigore sembra rispolverare rigidità.

Mi domando come il fatto di creare strutture verticistiche ed evidenziare figure  autoritarie femminili, risolva il problema di saper rimettere in gioco le differenze ed effrontare collettivamente quello che è stato snobisticamente lasciato alla gestione solitaria di ognuna. Abbiamo riscoperto nel passato le immagini di donne forti perché cercavamo barlumi della nostra storia cancellata. Oggi non ci servono santini da tenere a capo del letto. Ci serve ricostruire una dimensione collettiva non statica, né limitata nelle sue possibilità di indagine. Il Movimento è stato madre simbolica perché in esso si articolavano in modo dinamico, anche se spesso confuso e contraddittorio, le somiglianze, ma nello stesso tempo si mettevano in gioco differenze. In esso, di volta in volta, si riconosceva autorevole la parola che spingeva più oltre lo svelamento. Una parola non generica o astratta, ma che sempre – per quanto si facesse finta di non saperlo – ha avuto nomi identificabili. Tra i quali – polemicamente o no – c’era uno scambio. Visibile. A cui ogni donna poteva riallacciarsi senza sentirsi schiacciata. Perché si riallacciava ad un percorso differenziato, che aveva tappe di possibilità, espresse da donne diverse. Ognuna di noi, al suo livello di vita e di crescita, si è sentita partecipe di questo percorso. Il problema, oggi, non è evidenziare facce – il che non significa negarle – ma riconsiderare la possibilità di percorso collettivo che, nello scontro con il quotidiano e nella paura di approfondire anche ciò che ci rende diverse, si è bruscamente gelata.

L’alternativa allo scacco non può essere l’affidamento in termini di organizzazione gerarchica, sia pure con gli spostamenti che la gerarchia permette e sottende, perché ciò si ricollega direttamente ad una pratica di autoritarismo, che nulla ha a che fare con il desiderio di cittadinanza sessuata nel sociale. Manca l’ipotesi complessiva e il punto di collegamento. La strategia dell’affidamento non è vincente, è ingenua, se resta circoscritta in rapporti duali, al di fuori di un’ottica collettiva che, ricollegando le pratiche politiche, entra in società e dà autorevolezza alla gestione del desiderio.

Fin qui teoria. Ma lì dove la materialità tra donne ha senso e significato, l’affidamento trova spazi sempre più ampi di consenso- E li trova soprattutto in ambiti in cui non manca una dimensione di rigore. Questo fa escludere che la scommessa sull’affidamento possa giocarsi sul fascino provocato da una strategia dell’emancipazione pura e semplice, che sarebbe considerata vecchia e comunque non autorevole. Nasce da altro. Probabilmente da quell’ambiguità di fondo, mai dichiarata ma gestita, che contribuisce a rendere l’affidamento qualcosa che non mi piace, ma che d’altra parte mi costringe a non ignorarlo. C’è uno scarto che emerge da una lettura parallela e mi richiama, in qualche modo trasverso, parole autorevoli.

Mi seduce, oltre l’affidamento, il linguaggio per dirlo che, pur riferito solo al soggetto sociale, tralascia ogni termine che possa riferirsi a professionalità, tecnicismo e affini, e sceglie vocaboli tutti interni ad una dimensione di soggetto, e forse non vorrebbe, ma riscrive le parole di un’intimità. E sottende, in quella terminologia che dovrebbe essere controllata, una dimensione altra in cui riecheggia una vecchia e non caduta passione. Che non si deve dire, perché sembrerebbe sentimentalismo. Ma c’è. Persino nel conio, splendido, di quel termine “commerci sociali”, che risente del più che decennale fastidio delle donne di doversi occupare di una battaglia in fondo umiliante.

La dichiarazione, poi, era: destinatarie del messaggio sono tutte le donne, rifiutiamo qualunque ottica obbligata e rivendichiamo il diritto di proposta e di discorso. Si è escluso di proposito di nominare il Movimento. Ma di fatto, il lavoro capillare di informazione si è svolto attraverso i canali del Movimento. Che, senza parere, sono stati sollecitati, richiamati, utilizzati. E che sono stati disponibili. Non perché la proposta in sé avesse il richiamo irresistibile del messaggio rivelato, o risolutivo, o piombasse in un vuoto così assoluto che qualunque parola sarebbe stata sufficiente a riempirlo, ma perché autorevole era considerata la pratica da cui quella teorizzazione discendeva.

L’ascolto e la risonanza che l’affidamento ha avuto sono stati la conseguenza di una fiducia tutta interna al politico. La stessa fiducia ha prolungato nel tempo il dibattito e la voglia di approfondire. Poche donne hanno interesse a capire attraverso quali modalità di gestione si organizza la scalata al successo, ma poiché darsi valore significa oggi riconoscere che il Movimento è fatto di pratiche e di donne, con nomi, cognomi e indirizzi, che per pratica e storia politica riconosciamo autorevoli, è più importante andare a ricercare nella materialità della pratica, quel “quid” che nell’affidamento deve esserci – anche se ci sfugge – perché è inverosimile che “quelle” donne ci ripropongano la scoperta dell’acqua calda.

Lo stesso mi pare sia successo nei gruppi. E’ molto dubbio pensare che l’insieme contraddittorio, esaltante e disperante, rappresentato da un gruppo di donne, in cui gli odi e gli amori circolano con incredibile velocità, diventi un tutto granitico in attesa del verbo della prediletta. Per giunta una prediletta definita a furor di popolo dotata di un “più”, perché nel suo specifico campo competente.

O le donne sono radicalmente cambiate negli ultimi anni, o è legittimo sospettare – e magari verificare nella pratica – che se un dibattito è nato, anche in un settore specifico, tra donne legate da uno stesso interesse, garante del discorso è stata considerata, più che la professionista socialmente rappresentativa, la donna a cui riconosceva una pratica politica. Quella stessa donna che il gruppo l’ha voluto, organizzato, e soprattutto sedotto perché le riconosceva il segno di una storia e di una passione. Quella passione politica che collega e rimanda immagine. Immagine autorevole.

Sorge il dubbio, fondato, compiendo un’indagine anche minima, che nella scelta tra le donne che “sanno di più”, la professionalità conti molto meno di una serie di altre suggestioni. Che, insomma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, l’affidamento si faccia a naso, seguendo un impulso. Una volta si chiamava emozione. Perché nasce, più che da ammirazione professionale, da intuizione di somiglianza collegata ad una pratica politica riconoscibile, e riconosciuta, nella materialità l’affidamento diventa luogo in cui può essere agito il desiderio, perché la funzionalità diventa fatto secondario, pur connessa all’intimità fondante il rapporto.

Nella sua realizzazione materiale mi piace questo affidamento: potrei forse definirlo una pratica di desiderio che si organizza in Movimento. E quasi quasi, così, mi sembra anche autorevole.

Simonetta Spinelli

[1] In DWF, Mi piace non mi piace, 1986 (1) pp.22-28