La lepre e la tartaruga

Nelle regole per la sopravvivenza insegnate alle lepri, tra le fondamentali indicazioni su come reperire cibo, garantire la propagazione della specie, avere chiara in testa la tassonomia dei predatori, c’è anche l’oscura ma minacciosa avvertenza di evitare le tartarughe.

Apparentemente privo di nessi logici con le abitudini della maggioranza lepresca, l’avvertimento   viene interpretato di volta in volta o come residuo ancestrale di un tempo in cui le chelonidi, dirottando dalla linea genetica originaria, si erano evolute in una sottospecie secondaria, ormai estinta, di tartarughe da corsa; o come il solito confuso riferimento iperprotettivo della generazione adulta, una sorta di traslato bislacco del più familiare, ma altrettanto generico: “Attenta, figlia mia, che la città è un bosco”.

Fino ad epoca relativamente recente, nessun appiglio scientifico era fornito in merito alla pericolosità delle tartarughe. A meno che non si volesse concedere validità di fondamento – con un notevole sforzo di immaginazione – non certo alla storia di un’ipotetica gara di corsa tra una lepre e una tartaruga, in cui la prima sarebbe stata superata dalla seconda – ipotesi che avrebbe bisogno di ben altro da una forzatura interpretativa -,  ma a un qualche evento , di cui non restava traccia ma solo confuso ricordo, nel corso del quale, non si sapeva bene come né perché, l’una specie era riuscita a far perdere la faccia all’altra. Evento che la lepresca memoria collettiva aveva accuratamente rimosso, o meglio ridotto nei termini di un’oscura, incongrua minaccia.

L’enigma di una presunta pericolosità delle tartarughe per le lepri sarebbe rimasto tale se studiosi accreditati non avessero verificato, seguendo passo passo le fasi evolutive dei piccoli della specie, come la faccenda rappresentasse un sasso – sia metaforico che reale – sul quale, prima o poi, ogni lepre, nel suo processo di crescita, inciampava. Tanto che sul reiterato inciampare si erano appuntati studi e indagini sul campo e negli studiosi si era consolidata l’ipotesi   della cosiddetta fase della tartaruga, identificante una fase dell’evoluzione delle lepri verso l’età adulta. Fase imprescindibile, caratterizzata proprio dall’ossessione delle piccole lepri di incontrare una tartaruga da corsa da cui sarebbero state inevitabilmente battute, o un sasso che, per sua natura immobile, avrebbe all’improvviso riacquistato mobilità, facendole inciampare.

Il superamento dell’ossessione – ossia la tranquilla consapevolezza dell’inesistenza di tartarughe da corsa, tanto quanto l’apprendimento di tutti gli indizi idonei al riconoscimento delle differenze tra gusci mobili e sassi immobili, e la relativa sicurezza che ne derivava – attestava il raggiungimento per le lepri di una maturità equilibrata. Le tartarughe tornavano nell’indifferenza, salvo risorgere, eccezionalmente, in qualche sogno notturno.

In genere. Perché tra le lepri ce n’è sempre qualcuna che insiste con l’ossessione di cui sopra. Non ha superato la fase della tartaruga, disserta la scienza lepresca. La lepre di volta in volta incriminata non disserta: sogna una tartaruga che la supera sul filo del traguardo sfilandosi la corazza in un gesto esultante di vittoria e sul quel sogno si incanta.

Ora, per quanto la vulgata lepresca tramandi che lepri perversamente fissate nella cosiddetta fase della tartaruga siano assolutamente riconoscibili, per segni caratteristici inequivocabili – orecchie scomposta, insofferenza ai riti di socializzazione, tendenza a straripare in territori pericolosi – , l’immediata individuazione delle  devianti è messa in forse vuoi dalla pervicace abitudine delle medesime alla mimesi – imparano presto a lisciare le orecchie con subdola malizia -, vuoi da un evidente per quanto misterioso gioco della natura per il quale tali esemplari indiscutibilmente evidenziano le caratteristiche somatiche delle lepri comuni. Persino quando inalberano orecchie posizionate sulle ventitré. Cosa che, se da una parte si presta ad equivoci, dall’altra permette alla generalità delle tane di bearsi in una placida convinzione di immunità.

In una di queste tane immuni viveva, appunto, una lepre irrimediabilmente intrigata dalle tartarughe.

Una lepre insospettabile, con le orecchie composte e ordinate, il pelo chiaro, spazzolato e lucido, che si appassionava a trifoglio, carote e affini, secondo il costume, partecipava con moderato interesse, come di norma, ai riti di socializzazione e non dava motivo di scandalo.

Sembrava una lepre costumata ma, in segreto, coltivava una smodata, irrefrenabile curiosità per le tartarughe. Non solo ma, approfittando di approvvigionamenti di cibo comune (v.carote e/o lattughe), lanciava sguardi obliqui e seduttivi ad una particolare tartaruga che caracollava sulle corte zampe facendo ondeggiare, in un movimento che alla lepre sembrava assolutamente conturbante, la screziata rotondità del suo guscio.

Su quel guscio la lepre fantasticava. Fingeva di inciampare per godere da vicino il subitaneo rinserrarsi di tutte le superfici mobili della tartaruga in una massa compatta e impenetrabile e si chiedeva se ci fosse un modo, sia pur complicato, faticoso, per aprire quella corazza screziata. A volte, fingendo imperizia nel rialzarsi, cautamente poggiava le zampe morbide sui riquadri geometrici del guscio proibito, sperando in un qualche meccanismo segreto che, individuato per caso, avrebbe fatto scattare una cerniera interna ed esposto l’insieme ad un’indagine più approfondita. La tartaruga, indifferente, mimava l’immobilità compatta di un sasso poi, incurante della lepre, si dirigeva, caracollando e ondeggiando con passo lento e deciso, verso insondabili mete o si nascondeva con voluttuose movenze nella sabbia.

La soluzione dell’enigma in merito al come aprire una tartaruga era diventata per la lepre un’ossessione. Indagava, approfondiva, seguiva tracce, disegnava le mappe delle tane, spiava in ogni buco tondeggiante nel terreno indizi significativi. Invano. Nulla riusciva ad individuare che somigliasse ad un guscio di tartaruga appeso a un attaccapanni. Incontrava solo la tartaruga delle sue fantasie con il guscio lucido, striato, abbottonato fino al collo. Intenta ad attività tutte sue che sembravano non includere l’interesse per gli appostamenti seduttivi della lepre.

La lepre si era quasi convinta che la saggezza popolare avesse un qualche fondamento e che l’avvertimento di evitare le tartarughe fosse direttamente connesso alla frustrazione di non riuscire a penetrare il mistero del loro guscio brunito. Cominciava a chiedersi se non era il caso di dedicarsi ad altro passatempo quando, distratta dalle sue elucubrazioni esistenziali – Sono l’unica lepre al mondo fissata con le tartarughe! – si era trovata tra le zampe un ostacolo desiderato ma imprevisto ed era finita con il muso all’altezza di quello della solita tartaruga che, invece di rinserrarsi a doppia mandata nel guscio, sembrava osservarla con un certo divertito interesse.

“Ecco – si ritrovò a pensare la lepre – l’occasione è arrivata e io navigo ancora nell’ignoranza e non ho ancora la minima idea di come si sgusci una tartaruga”.

“Da sola” – rise la tartaruga, leggendole nel pensiero. E si sfilò con un gesto malizioso la corazza.

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