Tentazioni

Avvenne, in un tempo lontano, che una donna fondamentalmente timorata, malgrado certi suoi agitati trascorsi, seccata dalle incongruenze del vivere cosiddetto civile, dall’incapacità femminile di guardare il cielo stellato invece che ai sassi per strada e di mettere al mondo qualcosa di diverso dai figli – di qualunque genere, non parendole che mettere al mondo figlie fosse un gran passo avanti – si ritirasse, attrattane dalla fama, in un prestigioso beghinaggio, governato da sagge illuminate e illuminanti che, in cambio di obbedienza cieca e assoluta, garantivano la partecipazione di poche accolite, di fede granitica e lungamente testata, al preannunciato funerale del patriarcato.

Malgrado i trascorsi sopra accennati fossero stati improntati più alla dissipazione e a certe strampalate ideologie egualitarie che alla ricerca dell’agio e di una vita da signora, e fosse stata abituata a indulgere in curiosità multidirezionali, motivate dalla contingenza e dall’estro piuttosto che dalla disciplina, la donna si applicò, seguendo i canoni del beghinaggio, a modificare la sua pericolosa tendenza a funzionare come gruppo da uno, per raggiungere il fine agognato: funzionare come gruppo da due.

Presupposto indispensabile per partecipare ad un funerale che si rispetti per il quale la prassi prevede alcuni requisiti basilari: l’esistenza -vera o presunta non è rilevante – di una salma e un corteo organizzato in file da due, là dove i funerali poco seri assumono l’ondeggiare scomposto, personale e disordinato di una manifestazione di piazza.

Il primo periodo di noviziato si rivelò per l’accolita fonte di soddisfazioni. Era riconosciuta come una delle illuminate, segnata da un’appartenenza vivificante e, ancor più, dalla prossimità alle fonti di saggezza che governavano con materna fermezza il beghinaggio. Prossimità che, dalle anime semplici che osservavano dall’esterno la comunità femminile, era considerata come un’elargizione, più o meno gratuita, alla quale chiunque fosse dotata di desiderio di comunicazione e scambio poteva serenamente accedere. Grave errore di valutazione che dimostra come l’ideologia della dissipazione sia nelle donne malattia endemica piuttosto che epidemica.

L’accolita, nel tentativo più volte fallito di farsi accogliere nel beghinaggio, l’aveva scoperto a sue spese. Convinta che una richiesta di affidamento  sarebbe bastata,  era invece stata sottoposta ad una serie di prove in iniziatiche volte a dimostrare, senza ombra di dubbio, un fermo ripudio di ogni pratica movimentista e di massa, la consapevolezza di accedere ad uno scambio ineguale, di cui a tempo debito le sarebbe stato presentato il conto, l’attitudine a farsi rimodellare – ammesso che ne avesse la tempra, cosa anche questa tutta da dimostrare – secondo coordinate mentali più idonee ad esprimere una sana voglia di vincere. Era stata ammessa tra le postulanti ufficiali solo quando nelle madri fondatrici, sentiti i pareri non vincolanti delle gerarchie intermedie, era maturata la convinzione che avesse smesso di credere di avere opinioni personali e soprattutto diritti.

Nel beghinaggio la nuova postulante fu affidata ad un’accolita di secondo grado, a sua volta affidata ad un’accolita di terzo livello, di cui era affidataria un’affidata di una madre fondatrice. Fu inserita cioè nell’armonico intreccio di relazioni binarie nel quale era strutturata la gerarchia del luogo. Scelta motivata dal fatto che, funzionando il sistema binario con i computer, non si vede perché non dovrebbe funzionare con le donne.

In realtà, scoprì la novella accolita, qualche problema permaneva o a causa dell’invidia femminile non del tutto debellata, o per certe sfasature nell’applicazione delle regole dettate dal vertice, soprattutto in merito alla contabilità dei debiti, o per qualche incomprensibile confusione dei luoghi, per cui non si capiva più chi era l’affidata e chi l’affidataria o, peggio, chi era l’affidata di chi. E per quanto l’ordine fosse ristabilito con impressionante tempestività dall’alto – con l’avocazione alle madri fondatrici di ogni grado di affidamento, o con la retrocessione di alcuni livelli  e la ridistribuzione di altri, o con l’obbligo al silenzio e alla meditazione comminato in serie – l’accolita scoprì che le sue certezze erano disturbate da una, sia pur lieve, sensazione di dubbio. Sensazione che, interpretata come ennesima prova da superare per fortificarsi, combatté immergendosi nello studio di Santa Teresa. D’Ávila, ovviamente, non sembrandole la lettura della vita di altra Teresa idonea a sconfiggere dubbi. Pensiero di per sé poco ortodosso, sintomo di una vocazione non a tutta prova che, se comunicato, avrebbe provocato adeguati interventi correttivi.  Ma non fu comunicato.

Ora, essendo com’è noto il rimedio spesso peggiore del male, avvenne all’accolita che la lettura di Santa Teresa le facesse dirottare i pensieri verso direzioni non esattamente mistiche, e le suscitasse, non proprio nell’anima, anomali furori che, nella regola a cui si era votata, non erano contemplati. Nel senso che, considerati accidente inevitabile ma individuale, singolare, estraneo al compito sia di mettere al mondo il mondo che di seppellire il patriarcato, se ne scoraggiava fermamente la divulgazione e soprattutto l’approfondimento. Così il tentativo dell’affidata di distrarsi da Santa Teresa con Il bosco di notte [o La foresta della notte che dir si voglia], testimonianza di inaffidabilità e disordine simbolico, fu prontamente represso da una sollecita affidataria che, sentiti i pareri vincolanti delle gerarchie superiori, impose alla reproba un regime controllato a base di Margherita Porete.

L’accolita si dedicò allo studio assegnatole con devozione e cura imparò tutti i piccoli esempi dell’amore del mondo, si guardò nello specchio delle anime semplici, si permise rare pause di distrazione: in pratica solo un veloce, controllata incursione nell’eresia guglielmita e qualche punto di maglia e uncinetto. Poi, per quanto macerata dai sensi di colpa e dal rimorso, si scoprì in una notte di meditazione, mentre guardava il cielo stellato sopra di sé, a declamare perdutamente: “In questa geenna dorata adorata nera…”

Fu l’inizio della fine. Si gettò con furia instancabile – al grido di “qualcuna l’ha detto prima di me” – a devastare biblioteche di mistiche, per combattere la distrazione di un ridanciano, scarmigliato invito di piazza che le giungeva delle finestre. Si seppellì nell’opera omnia di Simone Weil ed ebbe un po’ di pace, ma – siccome il diavolo non fa i coperchi, ma fa sicuramente le pentole – alla lettura di Venezia salva crollò, e si ritrovò a commentare con perversa soddisfazione Pratica d’amore. E mentre indulgeva nel vizio solitario, attrasse la sua attenzione il fischio persistente e tentatore di una bulla col ciuffo ribaldo che passava e ripassava sotto le finestre del beghinaggio. Un fischio modulato e invitante. Un richiamo.

La sventurata rispose.

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