Nell’insieme e nel dettaglio

NELL’INSIEME E NEL DETTAGLIO [1]

C’è uno sguardo che è da lontano. Che coglie l’insieme e si allarga. Ed ha orizzonti vasti e dimensione che sembra atemporale. C’è uno sguardo che è da vicino, coglie il dettaglio e lo fissa. Di un gesto sa le frazioni di spazio che copre e i minuti in cui si compie. Del tempo sembra cogliere una scadenza miniaturizzata.

Se penso alla politica delle donne, ad una storia, la mia, che non so raccontare, troppo immersa in un flusso che è stato – ed è – viverla, mi sembra che sia stato un passaggio di ottica, una modifica di visuale, da uno sguardo che abbracciava l’insieme e si perdeva in vagheggiamenti di infinito, che pure apparivano – nell’espressione di un desiderio che per la prima volta si diceva e si agiva – a portata di mano e di voce, ad uno sguardo che ha ripreso il gusto di sapere l’incastro di relazioni e di eventi che costruiscono la politica delle donne, in un minuzioso riconoscimento di dettagli, che danno ragione di sfumature e scarti, e misurano distanze e avvicinamenti. Questo cambio di ottica ha  ridisegnato appartenenze, ridato sostanza e materialità a relazioni fra donne che sfumavano nell’indistinto, costruito un genere politico e insieme le coordinate di responsabilità politica che quelle relazioni e quel genere sottintendono e fondano. Ma è come se questa sovrapposizione di sguardi avesse sacrificato qualcosa che sacrificabile non era: la possibilità di una visione bifocale. Come se mancasse a questo corpo politico un meccanismo ottico capace simultaneamente di allargare il campo visivo in una visione egemone del mondo, e di restringerlo fino a cogliere di quella stessa visione le concretezze minute che ne rappresentano la struttura molecolare, il dato immediato.

Paradossalmente le donne lesbiche che hanno agito e che agiscono all’interno del movimento delle donne, sembrano aver conservato questa doppia capacità ottica, ma altrettanto paradossalmente sembrano incapaci di utilizzarla. Ed è un problema politico chiedersi perché.

Sguardo da lontano. Sguardo da vicino. Le altre. L’altra. Impossibile scinderle. Per una donna lesbica la visione è bifocale o non è. Nel momento in cui una donna riconosce il suo desiderio per un’altra donna e lo pratica, rompe immediatamente un dominio simbolico ed emotivo, e si sposta sul piano della libertà femminile. Può non saperlo razionalizzare, ma intimamente lo sa. Per negarlo deve operare un’assoluta rimozione di sé. Perché se quella libertà non fosse individuata e, nello stesso tempo, individuata come praticabile, quei corpi non potrebbero essere l’uno per l’altro luogo di desiderio. Il riconoscimento del desiderio fa di quell’altrove favoleggiato lontano un materiale che si afferma qui e ora. Mentre so che il gesto che fa di una donna quella donna – e riconoscendo l’intimità tra me e lei, lei e me riconosco – avverto la dimensione di libertà femminile di cui quel gesto ha necessità. Anche se non so nominarla.

E so che ho spostato un limite: ho reso praticabile ciò che era, per definizione, altro, impensabile. Agito da due corpi di donne, il desiderio sposta l’impensabile e apre uno spazio irriducibile di libertà femminile, in cui il codice prefissato non ha signoria, perché l’unica signoria è data dall’espressione concreta di quel desiderio.

Ma nel momento in cui il desiderio si dice come irriducibile, simultaneamente dice il legame reale fra donne che quel desiderio e quell’irriducibilità costruisce e abita. E poiché questo legame è una materialità non riconducibile ad autorità altra, svela nello stesso tempo, necessariamente, che di una sua autorità è emanazione e segno, e che questa autorità è femminile.

Questo pensiero su di sé nasce per le donne lesbiche femministe, o per le donne lesbiche che del proprio desiderio fanno criterio di intelligenza per la propria vita, come pensiero politico. Il privato e il politico sono infatti così strettamente interrelati da non poter presumere l’uno senza la costruzione di libertà femminile che è presupposto dell’altro, e questa interrelazione non è concepibile se nello stesso tempo non mette in campo la necessità di quel pensarsi donna che è connotato di tenacia, perché da esso dipende proprio la consapevolezza di esistere come corpo di desiderio.

Il movimento degli anni ’70 ha visto le donne lesbiche condividere con le altre costruzione di identità e sogno di un pensiero femminile egemone sul mondo, ma in quella storia, che collegava una donna al “se tutte le donne”, c’era anche, non nominato ma presente, il dato di materialità di un legame che, dal profondo di un’intimità condivisa, richiamava alla visione in dettaglio. Tra le donne non mi confondo. So  il legame preciso che mi lega ad alcune, quell’essere insieme nucleo sociale testimone del senso di viversi amante di un’altra, e della responsabilità politica che discende da quell’essere, tra donne, amanti. E sapere tutto questo è – come era – avere presente lo spazio che quella scelta di essere amanti presuppone come una necessità imprescindibile, intuire che questa necessità deve costruire le sue forme e, quindi, in qualche modo, darsi criterio di giudizio e di misura.

La stessa ottica, dell’insieme e del dettaglio, mi sembra si conservi oggi quando la politica del movimento delle donne privilegia un campo visivo che mette a fuoco la relazione duale, lo strutturarsi di piccoli gruppi, il concretizzarsi di alleanze nominate e fortemente caratterizzate, il confronto tra pratiche non tanto per assonanza e somiglianza quanto per eguaglianza di modalità di discorso, quasi di identità di linguaggio. E il dialetto sembra aver sostituito per ognuna quell’aspirazione alla lingua comune che, in precedenza, proprio i dialetti rischiava di cancellare.

Tribù nominate e riconoscibili, ognuna con il suo albero totem, sembrano circolare, senza incontrarsi, in un territorio che si vorrebbe comune. In questo panorama, indipendentemente dalle scelte e dai ragionamenti politici, le donne lesbiche – a volte loro malgrado – restano il popolo degli alberi. Perché ovunque indirizzino i pensieri, il corpo del loro desiderio sono le donne. E quel desiderio solo con le donne ha spazio e voce. E qualunque albero totem esse scelgano, ce ne sarà sempre un altro che per il suo essere albero le intriga. Dal momento che in loro le donne lontane e la donna vicina sono intrecciate senza possibilità di districare i nodi, e la loro pratica è una transumanza che non prevede confini, e le porta ad utilizzare tutti gli alberi come se fossero una rete. Rete scollegata, a volte, rete in costruzione, rete interrotta, rete stracciata, ma rete. E il sogno “se tutte le donne” non può essere dimenticato o eluso, perché significherebbe chiudere spazio vitale e orizzonte di possibilità, ma deve essere iscritto in una pratica di relazione che ne porti il tratto. Segnata dalla storia dei pini mediterranei sul mare e da un ricordo ancestrale di aranci, non posso io restare circoscritta a quei rami e a quel colore, se mi ha distratto e affascinato, nella diversità di vita e di percorso, la tenera propaggine di un abete o di un melo cresciuto sotto altro cielo.

Ma questa visione bifocale che è la forza delle donne lesbiche sembra essere, nello stesso tempo, la fonte della loro impotenza. Abituate alla distanza e all’avvicinamento da un investimento totale che coinvolge i corpi e i pensieri, esse non riescono a dirne l’autorevolezza né privatamente, né pubblicamente. Sembra che gli atteggiamenti selvaggi e la mancanza di misura siano ostentati, mentre c’è pudore e reticenza a riconoscersi autorevoli. Quasi che il nominare l’origine della forza sia mettere in pericolo un’identità collettiva che fa argine alla volgarità del mondo. Così si sceglie ciò che di quell’identità collettiva è un senso di appartenenza formale, ideologico, al ribasso, sacrificando ciò che quell’appartenenza profondamente segna: lo spostamento dell’impensabile all’irriducibile, e quindi la necessità di agirsi su un piano altro di libertà femminile, che esige comunicazione tra donne delle esperienze e degli esiti delle loro relazioni. Impossibilitato ad essere, per la sua pratica, tribù, il popolo degli alberi si dà totem provvisori e in essi si camuffa e si nasconde, e fa della sua forza “l’atto delle tenebre”, occultato e mimetizzato, mai esplicitato. E azzera le differenze, come se non sapesse, di una pratica che è sua, quello sguardo ravvicinato che fissa i dettagli. O i dettagli immobilizza in una diversa codificazione, come se non sapesse quello sguardo da lontano.

Oggi, che la politica delle donne ha superato il pericolo di un’equiparazione al ribasso, di un egualitarismo che immobilizzava e rischiava di destrutturare identità singole in nome di una presunta identità collettiva, il problema più urgente sembra di evitare che ci sia una frattura troppo ampia tra le analisi teoriche, la costruzione di un pensiero femminile, e la realtà quotidiana della maggior parte delle donne, e edificare un ponte che, a vari livelli, permetta l’aggancio di pratiche differenziate a quella costruzione di pensiero, le donne lesbiche hanno una responsabilità precisa. Qui e ora. Devono riuscire ad esplicitare, al di là di reticenze e mimetismi – attraverso i quali, negandosi, negano la libertà femminile – che mutamenti di pratica ha comportato e che comporta, che necessità sottende, l’investimento della loro vita verso un’altra donna. Quale dimensione di libertà femminile costruisce, quale svelamento opera e, quindi, quale autorevolezza fonda. E in che misura questo investimento, che dall’altra parte e alle altre ritorna, divenga linguaggio politico, perciò comunicativo, e parli l’esperienza singola ma, a partire da sé, dica a quale progetto politico si lega, a quale pratica di libertà ha dato luogo, di quale teoria si fa responsabile. Il “se tutte le donne” è oggi la determinazione a non accontentarsi di un’esperienza ‘appartata’, di una pratica illusoria, di un codice tra intime. Il linguaggio imparato con una donna è delle altre se produce un segno di libertà che dalle altre si faccia riconoscere. Affinché lo sguardo vada lontano nell’insieme e nel dettaglio.

Simonetta Spinelli

 

[1] In DWF,  Se tutte le donne,  n.15, 1991, pp. 26-29