Maternità aliena

di Simonetta Spinelli

La maternità, o meglio le relazioni con il materno e le scelte, le riflessioni che ne conseguono, torna sempre di prepotenza nel dibattito tra donne. soprattutto oggi che inevitabilmente incrocia  le analisi sulle modifiche sociali apportate dalle biotecnologie, sul rapporto tra responsabilità, libertà e diritti, sulle differenze, e altri temi che mettono ognuna di noi  di fronte  alle nostre incertezze e ambiguità, acuite dal rumore disturbante di sottofondo che incita alla rissa ideologica e veicola un clima culturale e sociale già abbondantemente inquinato dalla violenza. Mentre riflettevo che dovremmo riconquistare un po’ di ironia mi è improvvisamente tornata in mente Daydanda.

Daydanda non è un personaggio è una figura mitica, eccessiva, debordante, ma anche empatica, rivoluzionaria, avvolgente, curiosa di quanto non conosce, pronta a sconvolgere i ritmi della sua esistenza affrontando il diverso da sé,  ed è nata dalla fantasia di una grande scrittrice, Judith  Merril.

La fantascienza scritta da donne negli anni che abbracciano il ventennio tra il 1968 e il 1988 si è imposta di prepotenza al pubblico, non solo femminile, per la forza delle sue invenzioni e per il fatto di stravolgere il panorama del genere, veicolato all’inizio in riviste specializzate, e dominato dai canoni imposti dagli scrittori: la diversità pericolosa dell’alieno, la lotta per la conquista di altri mondi, la saga dell’esplorazione spaziale con i suoi eroi e il mito della tecnologia impersonato dai robot. Le donne capovolgono i canoni: giocano con un ironico ribaltamento dei ruoli che nasconde la critica al maschismo imperante, ripropongono il confronto tra razze aliene attraverso i riti sociali, la quotidianità, il rapporto dei sessi, il reciproco spaesamento dei diversi ma anche il loro involontario rispecchiamento, e le loro distopie sono spesso la rappresentazione impietosa, pur traslata in un futuro a venire, delle discrasie insite nei rapporti sociali di un riconoscibilissimo oggi.

Continua a leggere

Distopie profetiche

di Simonetta Spinelli

L’editoria oggi è fagocitata dal consumismo. I libri appaiono e scompaiono con una tale rapidità che, spesso, il passaparola non fa in tempo a circolare che già molti testi sono spariti al macero. Se la regola coinvolge la saggistica contemporanea, rende per lo più introvabili le analisi del femminismo delle origini e non solo. A meno che la commercialmente provvida scomparsa di un’autrice non convinca le case editrici ad una frettolosa ristampa, una specie di necrologio a copie.  Quanto avviene per la saggistica a maggior ragione si verifica per la narrativa, in particolare per quei settori considerati di nicchia. Così le giovani generazioni ignorano che fra gli anni Settanta e Ottanta si è verificato un moltiplicarsi di donne che hanno rivisitato la fantascienza, rendendola uno strumento di comunicazione al femminile e travasando il pensiero femminista nelle loro opere. Il fenomeno è stato così ampio, e così innovativo nello stile e nei contenuti, che la storica rivista  DWF [1] ha dedicato alla fantascienza scritta da donne un numero speciale: Aliene quotidiane, il cui titolo rimandava alla stretta attinenza tra l’universo fantascientifico, immaginifico ma strettamente legato all’osservanza dei suoi canoni (impatto con mondi altri e civiltà da scoprire, realtà futuribili, viaggi interplanetari) e una realtà che si voleva a dimensione di donna, antidiscriminatoria, antirazzista, capace di abbracciare ogni diversità come valore.

In gran parte le opere di fantascienza di quegli anni raccontano utopie, ma mentre ipotizzano un mondo, una società da costruire con altri parametri collettivi di riferimento, denunciano oppressione e violenza del dominio patriarcale utilizzando l’ironia per sottolineare le paradossali inconsistenze delle sue pretese. Ironia che si rivolge anche ai miti fondanti del dominio, soprattutto a quelli sostenuti dalle donne: la maternità, la famiglia, il rapporto madri-figli, la sessualità etero-normativa, l’ambivalenza amore/possesso.

L’utopia come schema narrativo non è l’unica visione scelta dalle scrittrici di fantascienza che, a volte, affrontano la descrizione di realtà distopiche come approdo inevitabile della cultura del dominio. Ma il mondo futuribile che ipotizzano, pur originato dagli stessi presupposti canonici (l’autodistruzione dell’umanità a causa della guerra,  il rischio che si aggravi il predominio del più forte, nel senso di più armato o tecnologico, o violento, che sia terrestre o alieno), è rappresentato come l’estrema conseguenza di un particolare dominio, quello sui corpi, e quindi sul corpo per antonomasia, il corpo delle donne.

Uno degli esempi più significativi di  fantascienza distopica è Il racconto dell’Ancella [2] di una grandissima scrittrice canadese, Margaret Atwood, che nella metà degli anni Ottanta reagisce all’ottimismo in voga con il cinismo profetico di chi guarda avanzare la controriforma maschista al femminismo. Testo nello stesso tempo acclamato e demonizzato, tanto da essere vietato in alcune scuole superiori statunitensi  e canadesi.

La storia, in estrema sintesi, si svolge in un futuro in cui un conflitto mondiale, e l’inquinamento chimico e radioattivo che ne deriva, oltre al quasi azzeramento ovunque della natalità, provoca la fine degli Stati democratici e del loro sistema di alleanze, e facilita la nascita di agglomerati statali, isolati e chiusi in se stessi, legati solo da un accordo che vieta qualunque ingerenza reciproca. Uno di questi agglomerati è lo Stato teocratico del Nord America, una dittatura governata da gerarchi militarizzati, che prevede l’eliminazione degli oppositori o la loro reclusione nelle colonie dove si smaltiscono i rifiuti tossici, il divieto delle libertà religiose e, soprattutto, il totale asservimento delle donne, che perdono ogni diritto se non quello legato ad un assegnato statuto sociale. Statuto strettamente collegato al mantenimento del dominio e alla soluzione del problema sociale contingente: la crescita zero della natalità. In quest’ottica, “donne” sono considerate gli esemplari femminili in grado di procreare, mentre le donne sterili o in età avanzata sono definite “non-donne” ed eliminate, ridotte in schiavitù lavorative forzate, o segregate nei bordelli , frequentati dai gerarchi, vietati per legge ma tacitamente tollerati per convenienza dagli apparati statali (qui la distopia si è concessa qualche licenza più realistica).

La divisione sessista per funzionare ha bisogno di qualche aggiustamento. Il gerarca, infatti, è vincolato da una serie di leggi (non dichiarate ma implicite): il sistema di alleanze che lo lega agli altri gerarchi, tradizionalmente stretto con l’incrocio dei matrimoni con le figlie degli alleati, pedine senza valore ma necessarie, che  rende pericoloso il ripudio delle mogli sterili; la legge del sangue, che sancisce come la trasmissione del potere avvenga solo e soltanto con i discendenti legittimi del padre e non con sostituti considerati abusivi; la fede consolidata nel dogma che sterili possano essere solo le donne, mai gli uomini.

La soluzione viene trovata nell’istituzione del ruolo delle Ancelle, donne giovani, sane e di fondata capacità riproduttiva, non appartenenti alla classe dominatrice, prive dei diritti e persino del nome (l’Ancella del romanzo si chiama Offred – in italiano Difred – cioè di Fred, appartenente al Capitano Fred), che vengono allevate come future partorienti ma solo dei figli voluti dal detentore del potere, perché ogni altra nascita è vietata e sanzionata per legge. Affinché questo ruolo non dia loro lo statuto di madre, che è privilegio della moglie del gerarca, ci si affida a un’interpretazione distorta  e attualizzata dei versetti della Bibbia in cui Rachele, seconda e amatissima moglie di Giacobbe, gelosa dei figli partoriti dalla sorella, chiede al marito di unirsi con la sua schiava Bila, in modo da dargli, attraverso lei, un figlio: “Unisciti a lei che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anche io dei figli per mezzo di lei” (Genesi 30,1-4).

La trasposizione della frase biblica nell’accoppiamento viene interpretata alla lettera ed è vissuta come un rito: è una cerimonia pubblica, avviene in presenza di testimoni, perché sia certa la discendenza paterna, la continuità della linea del sangue, e deve avere l’adesione della moglie legittima che si assume la maternità simbolica, e si riappropria della definizione di “donna” attraverso la gravidanza dell’altra. Adesione che deve essere verificata – e a cui la moglie non può sottrarsi senza essere definita sterile e quindi “non donna”, eliminabile – ed è esplicitata dal fatto che il congiungimento sessuale tra il padrone e l’Ancella avviene letteralmente tra le ginocchia della moglie che, sostenendo la schiava con il suo corpo, dimostra di prendere parte attiva alla procreazione.

L’intero racconto, molto più articolato di quanto qui si sintetizza, si impernia su un tema chiave: il potere fonda essenzialmente sul dominio primario che si esercita sul corpo delle donne e ne sfrutta, appropriandosene, le potenzialità, spingendole, attraverso i costumi, i ricatti, la doppia morale, persino l’uso e l’abuso del sacro, ad essere consenzienti e/o complici.

Non sembra così distopica, a ragionarci su, la rappresentazione fantascientifica di una tale realtà. Ancora oggi la maternità – tragico errore evolutivo della specie umana, che costringe gli uomini a ricorrere alle donne per avere una discendenza, visto che l’utero artificiale, malgrado i loro sforzi, non si riesce a inventare – è il campo del contendere tra i sessi, santificata quando è sotto controllo, strumentalizzata per mettere in mora le rivendicazioni delle donne che contrastano con l’ordine costituito, e mercificata quando serve. Si è già visto durante le lotte per il diritto all’autodeterminazione, quando le donne in piazza manifestavano per la depenalizzazione dell’aborto,  contro la clandestinità che aveva  provocato un numero infinito di morte, e le dichiarazioni del mondo maschile brillavano per beceraggine: “ Sono tutte puttane e non vogliono responsabilità” – come se le donne incinte, comprese le prostitute, fossero affette da epidemia da partenogenesi e per una donna rinunciare ad un pezzo d sé, che si forma con il suo sangue e il suo respiro, non fosse un trauma psichico e fisico da trascinarsi per tutta la vita.

La scelta di legalizzare l’aborto – e non solo depenalizzarlo, come chiedeva il Movimento delle donne – è stata la risposta  all’ossessione maschile del controllo a tutti i costi.  Non a caso i consultori, ottenuti lottando per anni, e la cui funzione dovrebbe essere accompagnare e sostenere una scelta difficile e dolorosa e attuare una capillare opera di prevenzione, invece straripano di obiettori di coscienza, nuovi farisei che costruiscono ostacoli in nome di una presunta morale in cui non credono, ma che sono disposti a difendere perché garantisce prestigio sociale e potere sulle donne. In questo sostenuti da un circo di integralisti fanatici che presidiano in permanenza le strutture abilitate per mettere alla gogna qualunque donna che, dopo peregrinazioni da un centro ad un altro, persino da una regione ad un’altra, chiedono un intervento abortivo o anche solo una pillola del giorno dopo o un semplice anticoncezionale. Nell’indifferenza dei prefetti che dovrebbero intervenire contro le turbative dell’ordine pubblico, in cui presumo siano incluse anche quelle contro la libertà delle donne.

I mutamenti introdotti dalla tecnologia, dalle scoperte scientifiche e dall’evoluzione sociale hanno ulteriormente modificato le tematiche afferenti, in un modo o nell’altro, alla maternità. A partire da un imprevisto incidente di percorso: le ricerche (malauguratamente non indirizzate da un governo teocratico) hanno dimostrato che sterili possono essere anche gli uomini. L’effetto immediato è stato l’affievolirsi dello stigma sulle donne sterili  – le “non donne” di un recente passato – per timore che si risolvesse a danno degli uomini, riducendoli, nei rituali competitivi  del reciproco riconoscimento, se non proprio a “non uomini”, a “un po’ meno maschi”. Opinione subdolamente veicolata dalle statistiche sul calo della natalità nei paesi occidentali  e sulla speculare indisponente prolificità dei migranti e dei rifugiati.

Se si tralasciano le dilaganti polemiche sulla fecondazione assistita che hanno prodotto in Italia una legge aberrante, che sentenze più caute stanno a poco a poco azzerando,  su quali e quanti embrioni trapiantare (tanto un parto pluri-gemellare e ripetuti bombardamenti ormonali incidono soltanto sulla salute della donna), sulla legittimità limitata all’omologa (perché con l’eterologa, se il seme fosse di un altro uomo, ci sarebbe il sospetto di corna per procura  e la legge del sangue paterno andrebbe a farsi benedire), un dibattito molto più ambiguo si sviluppa intorno alla possibilità di ricorrere alla maternità sostitutiva. Ambiguità che inizia dalla definizione “maternità surrogata”, come se il corpo impegnato nella gestazione e nel parto fosse identificabile solo nella sua provvisoria funzione, un po’ come, durante la guerra, la cicoria al posto del caffè. Non più corpo ma quasi commerciabile pezzo di ricambio, utilizzabile, quindi sano, con un costo valutabile in termini economici  (nel migliore dei casi come dono in nome della  logica familistica che avrà, comunque, un prezzo da pagare, anche se non direttamente monetizzabile). Ambiguità che continua nel sottolineare solo il ricorso a tale pratica da parte dei gay, come se nei paesi in cui è ammessa non fossero molto più numerose le coppie etero che la richiedono, per il banale calcolo statistico che valuta gli omosessuali una minoranza, la metà formata da lesbiche, alle quali per fare i figli basta una provetta. Per non parlare dell’incongruenza giuridica che negli stessi paesi vieta la compra-vendita dei figli, ma  permette la locazione dei corpi delle donne.

Ricorrere alle tecniche di PMA attraverso la strumentalizzazione di una donna estranea alla coppia, e quindi reificandola , rappresenta una rivalsa e una riverniciatura dell’ossessione del controllo sul corpo delle donne da parte del genere maschile, espressa indifferentemente da etero e da gay. C’è un capovolgimento di ottica: lo stigma non riguarda più l’infertilità della donna, che ha nell’uomo la controparte speculare, ma il suo non essere in grado, qualunque sia il motivo, di portare avanti una gravidanza. E’ lei la “non donna” da sostituire o “la donna” di cui finalmente fare a meno. Parallelamente cresce l’enfasi sulla maternità (o paternità) che, in nome della società dei consumi in cui vige il “quello che si può avere si deve avere, da desiderio di avere figli, del tutto legittimo, si trasforma in bisogno ineliminabile, costi quel che costi, perché collegato alla rappresentazione sociale. Di una casta. Non di gerarchi di uno Stato teocratico, ma di detentori di potere indiretto in quanto provvisti di reddito. Non sembra, infatti, che le cronache registrino l’espandersi del fenomeno tra i precari, le coppie mono-reddito, i disoccupati gay o etero che siano. E non è difficile immaginare da quali paesi economicamente disastrati o da quali periferie urbane del mondo provengano le nuove Ancelle. Né quale pressione ricattatoria pesi sulle “non donne” dei ceti sociali più abbienti, disposte comunque ad assumersi la riduzione a corpo a perdere di una loro simile, facendo finta di ignorare che la miseria simbolica che schiaccia una singola donna ricade su tutte le altre. Anche su di loro.

                                                                                                                               Simonetta Spinelli

[1] <DWF>,  1991, 13-14

[2] The Handmaid’s Tale, 1985 (trad.it. Mondadori, 1988)