Maternità aliena

di Simonetta Spinelli

La maternità, o meglio le relazioni con il materno e le scelte, le riflessioni che ne conseguono, torna sempre di prepotenza nel dibattito tra donne. soprattutto oggi che inevitabilmente incrocia  le analisi sulle modifiche sociali apportate dalle biotecnologie, sul rapporto tra responsabilità, libertà e diritti, sulle differenze, e altri temi che mettono ognuna di noi  di fronte  alle nostre incertezze e ambiguità, acuite dal rumore disturbante di sottofondo che incita alla rissa ideologica e veicola un clima culturale e sociale già abbondantemente inquinato dalla violenza. Mentre riflettevo che dovremmo riconquistare un po’ di ironia mi è improvvisamente tornata in mente Daydanda.

Daydanda non è un personaggio è una figura mitica, eccessiva, debordante, ma anche empatica, rivoluzionaria, avvolgente, curiosa di quanto non conosce, pronta a sconvolgere i ritmi della sua esistenza affrontando il diverso da sé,  ed è nata dalla fantasia di una grande scrittrice, Judith  Merril.

La fantascienza scritta da donne negli anni che abbracciano il ventennio tra il 1968 e il 1988 si è imposta di prepotenza al pubblico, non solo femminile, per la forza delle sue invenzioni e per il fatto di stravolgere il panorama del genere, veicolato all’inizio in riviste specializzate, e dominato dai canoni imposti dagli scrittori: la diversità pericolosa dell’alieno, la lotta per la conquista di altri mondi, la saga dell’esplorazione spaziale con i suoi eroi e il mito della tecnologia impersonato dai robot. Le donne capovolgono i canoni: giocano con un ironico ribaltamento dei ruoli che nasconde la critica al maschismo imperante, ripropongono il confronto tra razze aliene attraverso i riti sociali, la quotidianità, il rapporto dei sessi, il reciproco spaesamento dei diversi ma anche il loro involontario rispecchiamento, e le loro distopie sono spesso la rappresentazione impietosa, pur traslata in un futuro a venire, delle discrasie insite nei rapporti sociali di un riconoscibilissimo oggi.

Judith Merril, pseudonimo di  Judith Grossman, è la pioniera di quella che diventerà in seguito una schiera di scrittore di fantascienza, perché inizia ad invadere un territorio esplorato solo da uomini già dalla fine degli anni Quaranta. Il suo racconto più noto Homecalling , in italiano Il richiamo[1], apparso negli anni Cinquanta in una rivista di settore, ma pubblicato in Italia solo alla fine degli anni Ottanta, inizia con un disastro. La navicella spaziale che ospita una famiglia composta dai due genitori, tecnici di supporto alle basi umane extraterrestri, una bambina preadolescente e un bambino che ancora non cammina, per un incidente nella discesa verso un pianeta alieno subisce un incendio nella sala macchine e precipita al suolo, isolando automaticamente la sala piloti , che si incendia, e la sala dormitorio-ristoro-cucina in cui sono sistemati i figli. Nel racconto i due genitori sono descritti solo dalle loro ultime grida che la figlia registra: frasi interrotte del padre che tenta di accendere i razzi frenanti e della madre che le ordina di salvaguardare il piccolo.

A partire da questo inizio la narrazione si sviluppa incentrandosi sul rapporto tra due figure femminili, la bambina rimasta sola con la responsabilità del fratello non ancora autonomo e Daydanda, l’aliena con la quale viene a contatto,  un incontro-scontro reso descrivendo l’alternanza delle emozioni dell’una e dell’altra di fronte alle reciproche macroscopiche diversità e alla difficoltà di  comunicazione.

Didi, la bambina, è sola con un fratello a carico, divisa tra il  non voler abbandonare l’infanzia e la responsabilità che le è stata affidata , come un passaggio di testimone, tra il bisogno di restare ancorata al ruolo di figlia, con le sue coordinate culturali definite, e il troppo precoce compito di cura che le è piombato addosso. Tutto intorno a lei è estraneo, il suolo, la vegetazione, l’assenza di segnali di riferimento noti e subisce un dolore lancinante che le blocca il pensiero: l’assenza della madre. Non è pronta ad affrontare questo trauma che non le permette di reagire e quindi lo rimuove, autoconvincendosi che il portello della navetta che divide il settore indenne dalla stanza di pilotaggio, e quindi nasconde alla vista il corpo senza vita della madre, non esista e che sulla parete ci sia soltanto una paratia chiusa.

Daydanda, l’aliena gigantesca, è la matriarca telepate di una enorme famiglia di insetti, strettamente specializzati per ruolo (gli operai, le nutrici, le sentinelle, gli esploratori, le trasmettitrici dei messaggi della madre, le future riproduttrici, i guerrieri) ed è la garante del funzionamento della colonia e quindi della sua sopravvivenza. Tutto dipende da lei, dalla sua capacità organizzativa, dal suo acume nel notare piccole falle nel sistema prima che diventino pericolose, dalla sua immediatezza nel gestire, con la comprensione ma anche con il rimbrotto seccato, gli innumerevoli figli e lo stesso piccolo marito.

Dell’essere titolare dell’enorme potere di generare figli Daydanda conosce la responsabilità. Generare l’altro da sé implica la comprensione e l’accettazione della diversità senza le quali non potrebbe indirizzare i figli verso lo specifico ruolo che compete loro per il benessere della comunità. Poiché l’armonia della colonia, tra i suoi membri e con la natura del territorio, è indispensabile il potere generativo non può risolversi solo in una cura amorevole e oblativa ma deve svilupparsi nell’opera di manutenzione, con l’attenzione ai dettagli anche piccoli ma che nel lungo periodo possono mettere in pericolo la colonia. E la manutenzione lungimirante è il compito primo della Madre e può giustificare anche strappi alla tradizione.

Gli strappi alla tradizione che Daydanda , responsabilmente e a ragion veduta secondo lei, si concede riescono sempre a gettare nel panico il piccolo marito, provocando nella matriarca un misto di irritazione e sopportazione. Il marito è  fondamentale[2] perché si preoccupa delle sue esigenze e il suo compito è quello di rassicurarla nel suo narcisismo, nel ripeterle che è bella, potente, praticamente perfetta, ma come tutti i maschi della specie è un abitudinario e difetta di immaginazione e inventiva. Ogni variazione di ritmo nel trantran quotidiano lo manda in confusione, con il rischio che la sua ansia si trasmetta all’intera colonia, ogni distratto accenno alla possibilità di allargare la famiglia gli provoca un’immediata inconsulta eccitazione che disturba la Madre presa dai suoi gravi e irrimandabili doveri, e si sconvolge in particolare quando la moglie prende iniziative non strettamente legate alla colonia ma esclusivamente al suo piacere. Come con i figli, Daydanda usa con lui la strategia consolazione/rimprovero, lo tiene a bada ma qualche volta fa finta di chiedergli consiglio, tanto per dargli un po’ di importanza. Sa che questo basta a renderlo felice. In fondo è pur sempre il padre dei suoi figli, anche se proprio non capisce l’esigenza di novità che assilla Daydanda e guarda sconvolto il suo nuovo progetto, inaudito per le consuetudini della specie, di far costruire una nuova, più grande camera nuziale al solo scopo di stare più comoda e soddisfare la sua creatività.

Didi, dal canto suo, dopo essersi rinserrata per giorni nella capsula a giocare alla casetta, nella speranza dell’arrivo dei soccorsi, decide di andare alla scoperta del pianeta, forte dell’insegnamento ricevuto come giovane esploratrice spaziale, ed esce verso il bosco trascinandosi dietro il fratello nel carrozzino. Ovviamente la sua attività non resta senza conseguenze. Daydanda, in precedenza avvertita che nel bosco sono precipitate delle ali dal cielo, notizia che l’ha distolta dal compiacimento per l’opera creativa, e comoda, che ha fatto costruire, è avvisata da vedette in stato confusionale che dallo strano oggetto stanno uscendo due esseri, una femmina e un piccolo maschio che ha bisogno di essere trasportato. Cerca di tradurre la notizia attraverso il suo schema mentale e si chiede se le ali, pur così strane, non siano quelle che si perdono dopo il volo nuziale di una coppia, e se i due esseri avvistati non siano a loro volta la coppia in questione, anche se l’idea che una futura madre, oltre ad occuparsi dei figli a venire, debba anche accudire il marito incapace le sembra il massimo della disgrazia.

Al contrario del marito, per il quale scatta l’equazione diverso uguale pericolo e si agita, Daydanda, per la quale il diverso è diverso e basta, ragionando trova una spinta empatica: lei è una Madre e se c’è sul territorio un’altra possibile madre bisogna indagare andando a vedere di persona. Tanto più se la madre in questione può andarsene in giro liberamente, anche dopo il volo nuziale, e non restare relegata nel nido: una variazione sul tema che le sembra aprire interessanti sviluppi pratici da approfondire. Così prende un’altra decisione rivoluzionaria e si fa costruire dai figli un’enorme lettiga con ruote, coperta da stuoie per difendersi dalla luce del sole ed esce per la prima volta dal suo nido sotterraneo, bruscamente tacitando il marito atterrito che la scongiura di non rischiare la vita e che vede in questa uscita della casa  praticamente il crollo delle tradizioni secolari della specie.

L’incontro tra gli insetti e i bambini nel racconto si sviluppa su due piani. Il primo è l’assoluta incomprensione tra i rappresentanti di una società completamente in simbiosi con la natura, in cui esseri viventi e piante sono integrati in un unico ciclo vitale, e di un’altra dominata dalla tecnologia e dallo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Gli sforzi di Didi, che ha conoscenze inadeguate degli stessi meccanismi che sa far funzionare, non migliorano la reciproca conoscenza e le incomprensioni creano equivoci esilaranti che rendono godibile il racconto ma non ne rappresentano il fulcro che è incentrato sulla difficile interazione delle due figure centrali: l’insetto madre e la bambina.

Daydanda, quando incontra i terrestri, si rende conto che non sono una coppia ma due piccoli, di cui una è chiaramente una futura madre, cioè l’omologa delle figlie alle quali dedica particolare attenzione perché devono a loro volta rappresentare la forza generatrice per la conservazione della specie. Nella diversità delle due creature, nel suo schema mentale materno coglie un’equivalenza e mette in atto il meccanismo telepate per creare un contatto che possa essere rassicurante ma anche teso ad indagare una per lei inconcepibile incongruenza: dov’è la madre?

Peter, il bambino, ancora in uno stadio preverbale e non condizionato, reagisce immediatamente al messaggio calore-cibo-sicurezza che proviene dalla mente dell’insetto madre e vi si abbandona senza riserve. Didi reagisce a quella che sente come un’intrusione violenta nella sua testa, di cui non capisce l’origine e che la spaventa, mettendo in atto una strategia difensiva: per fare il vuoto mentale dentro di sé si affida  alla ripetizione ossessiva di una specie di mantra, ripetendo a memoria filastrocche, tabelline, brani di testi e manuali che conosce. Daydanda è piuttosto seccata da questo atteggiamento di cui non capisce lo scopo, sconcertata che alla sua disponibilità si possa rispondere con la difesa, ma soprattutto sconvolta che, intramezzato alle filastrocche ripetitive nella mente della bambina, affiori, sia pur con fatica bloccato e rimosso, il pensiero della morte di una madre.

Nell’esperienza di Daydanda la morte di una madre è la più grave delle tragedie perché determina l’annichilimento dell’intera colonia che sprofonda nel caos. Priva della sapiente opera di  cura e manutenzione, e dell’attenzione ai dettagli anche minimi della madre la colonia sembra per un breve periodo di tempo funzionare. I compiti sono eseguiti dai figli in automatico, ma gli errori quotidiani si sommano fino a generare il disastro: nel lungo periodo le piante che danno il nutrimento si seccano e non vengono sostituite, i piccoli muoiono di fame,nel nido si producono crolli, gli esploratori si perdono, la famiglia non cresce e si scatenano gli elementi più pericolosi ed imprevedibili della colonia, i testa rossa.

Guerrieri indispensabili per la difesa, i testa rossa, addestrati a scattare immediatamente al minimo segnale di pericolo,  necessitano da parte della madre di un controllo ferreo e costante, perché tendono a rispondere in maniera automatica anche a situazioni che sarebbero gestibili altrimenti e che soltanto loro interpretano come pericolosi. Compito della madre è tenerli a freno e all’occorrenza farli riprogrammare prima che prendano pericolose iniziative. In assenza del controllo materno, i testa rossa leggono la mancata manutenzione della colonia come un pericolo , si lanciano all’attacco e non trovando un nemico reale si rifanno distruggendo la famiglia e divorandone i membri prima di autodistruggersi divorandosi a vicenda[3].

Le considerazioni sui disastri provocati dalla perdita del materno attenuano l’irritazione di Daydanda verso Didi e il suo atteggiamento di ribellione. Considera che la bambina,  priva di un punto di riferimento e di guida, pur nell’inesperienza e nell’ostinata difesa, dimostra di preoccuparsi soprattutto del fratello più piccolo a cui garantisce la soddisfazione dei bisogni primari nutrendolo, cambiandolo, trasportandolo, in definitiva gestendone la manutenzione. E questo le sembra un dato comune , fondamentale per costruire un rapporto, sia pur più complicato del previsto, tra una Madre consapevole e matura e una madre in divenire, e decide di inserire i bambini nella dimora della colonia[4].

Didi, dal canto suo, lotta contro emozioni contrastanti. E’ stanca, impaurita, sa , al di là degli scatti di orgoglio che le fanno immaginare di poter sopravvivere da sola, che non troverà aiuti alternativi, e nasconde il desiderio infantile di adagiarsi nell’abbraccio rassicurante che nella sua testa risuona come promessa di calore, accudimento, sostegno, la stessa che sembra aver conquistato il fratello che si lascia beatamente coccolare dagli insetti. Una voce mentale che – ma il pensiero è subito represso – le ricorda un altro abbraccio perduto e un’altra rassicurazione.Così decide di seguire Daydanda, anche se per precauzione si porta dietro un cannello a fiamma ossidrica come arma e per far luce.

E’ proprio la luce. utilizzata nel buio della caverna, a permettere l’incontro faccia a faccia di Didi con l’insetto madre che fino ad allora per ei non era che un impulso rassicurante proveniente da una lettiga chiusa. L’impatto visivo e devastante. Di fronte alla gigantesca matriarca con un occhio solo  la bambina realizza con orrore che la voce rassicurante corrisponde ad un essere mostruoso. Da parte sua, con altrettanto orrore,Daydanda è ferita nel suo narcisismo. La madre possente, la forza generatrice e regolatrice della colonia, la meravigliosa signora esaltata dai suoi figli, si vede riflessa nella mente della bambina come un essere spaventoso, grasso, ripugnante, in definitiva orrendo. E reagisce con un messaggio punitivo d’ira, di cui subito si pente, riprendendo il controllo e scusandosi. Contro ogni logica, Didi coglie nelle scuse un’assonanza con qualcosa che conosce e le manca: assomigliano al dispiacere di una madre che ha perso la pazienza e sculacciato la figlia. E manifestano la preoccupazione di non ferirla. Per quell’assonanza la bambina, dopo uno scatto istintivo di ribellione, decide che  la strana creatura le sta simpatica  e che, pur mantenendo i suoi propositi di autonomia, può fidarsi.

Anche Daydanda, consapevole che Didi non ha ancora strumenti adeguati ma inizia a cooperare, decide che sta a lei indagare con delicatezza per comprenderne gli schemi di comportamento e cerca di allontanarsi dai propri  riferimenti  culturali per capire la contraddizione della bambina che sembra oscillare tra il desiderio di sapere la madre morta per riuscire ad andare avanti e, nello stesso tempo, il rifiuto illogico di accettarne la perdita. Contraddizione che legge nei suoi incubi quando dorme, in cui predominano le immagini di un fuoco che distrugge e provoca un dolore disperato. Forse, si dice Daydanda, nell’altrove del cielo dal quale i bambini sono precipitati, esiste un rito di passaggio che prevede la morte della madre perché la nuova madre possa prendere il suo posto. Inconcepibile per gli insetti, ma forse possibile per una cultura altra. Più difficile capire le contraddizioni di Didi, compito fondamentale per riuscire ad aiutarla. Abbandonando le speculazioni logiche, Daydanda ripercorre il momento tragico di un incendio che ha quasi distrutto la colonia e rivive nel dolore della bambina la sua disperazione per la morte di molti suoi figli. E nella contraddizione in cui si dibatte nel sonno la sua nuova protetta rivive l’ansia del primo volo nuziale con la giovane coppia divisa tra la speranza di un futuro felice e il timore panico del futuro che l’attende.  Daydanda è soddisfatta: comprendere per assonanza le sembra l’unica strada per garantire ai bambini e alla colonia la convivenza.

Merrill, come già detto, non costruisce un personaggio: Daydanda è il topos del materno. E’ narcisista, ma il suo autocompiacimento è legato al potere che geneticamente detiene e di cui è con orgoglio consapevole: senza di lei non esiste la vita. E’ presuntuosa, difende la sua autonomia il suo desiderio di creatività e il suo piacere,  anche a costo di sconvolgere tradizioni secolari, perché una madre che si autoimmola a una cura passiva, dimenticandosi di se stessa, non trasmette energia vitale ai figli e costruisce una colonia priva di forza vitale. Rimbrotta, pone le sue regole, perché il suo compito è favorire una manutenzione  della  colonia che esprima slancio e non stagnazione, rapporti di empatia e non di contrapposizione, comprensione non per categorie solo logiche ma per assonanza.

Questo sarà pure un racconto di fantascienza ma, considerato lo spirito acritico e rissoso dei nostri tempi, restituire al materno un po’ di  orgoglio non sarebbe male.

[1] J. Meeril, Il richiamo e altri racconti, Milano, La Tartaruga, 1989 (trad.it. e prefazione di Oriana Palusci)

[2] Judith Merril ne ha avuti tre

[3] Merrill, aderente ai movimenti pacifisti, all’epoca della guerra in Vietnam abbandona gli USA e prende la cittadinanza canadese

[4]  Merrill quando scrive il racconto ha una figlia adolescente

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